DAI! GIOCHIAMO ALLA GUERRA…

Armi giocattolo, film e video violenti, “giochi” virtuali “di guerra” e varie forme di violenze online e su “gamebox”. Viene seriamente da pensare che ci sia ancora qualcuno che ha una qualche nostalgia per la guerra. Non mancano particolari intelligenze, persone che dedicano tempo e concentrazione per trasformare le idee in qualcosa di utile e fruibile. Persone normalmente poco inclini a farsi notare. Fra queste però, alcune si prestano ad elaborare la realizzazione di giochi cui molti, giovani e meno giovani, si appassionano anche in modo compulsivo. Non ho nulla contro il gioco, ci mancherebbe, ma spero di non essere il solo a dire che è opportuno riflettere su un fatto: troppo spesso questi giochi sono pervasi da stimoli alla violenza, attraverso i quali si “procede vittoriosi nel “gioco”. Stimoli che non hanno nulla di sportivo e che non sono nemmeno parenti del concetto di competizione. Anche il cinema contiene spesso questi stimoli e la tv in generale ne è pervasa. Ma la questione è che i giochi prevedono interazione e questo diventa un’aggravante perché “educa” a costruire abilità che andrebbero invece “diseducate”, ridefinite e rielaborate. Chi studia giochi e “livelli di gioco” per superare i quali è necessario far proprio un pensiero criminale, violento, sanguinoso… costoro come si comportano nella vita di tutti i giorni? Cosa pensano veramente? Folle e irresponsabile che questo “esercizio” sia consentito per la produzione di “giochi” da vendere in gran serie con l’enfasi tipica di cui sono capaci le aziende interessate. Triste e allucinante dover assistere a dichiarazioni entusiastiche sul successo commerciale che hanno certi giochi violenti. Spaventa registrare che ci sono persone che inseguono questi obiettivi, li raggiungono e vengono anche esaltati dai media. Questi “giochi” non sono giochi, ma forme di addestramento mentale all’uso scientifico della violenza e che generano danni sociali permanenti gravi, più o meno evidenti, che si potrebbero evitare se gli autori e i produttori fossero obbligati a passare periodici e particolari esami d’idoneità prima di essere autorizzati a ideare o commissionare giochi che vanno letti come “mandanti” della violenza.

Ci sono regole per consentire o meno di mettere una panchina in un parco e non ce ne sono per vietare queste produzioni. Servirebbe un esame ad hoc anche per chi licenzia, commercializza e promuove certi giochi avvalendosi di testimonial, noti in altri contesti o resi noti dalle multinazionali che li hanno assoldati per diventare “ambassador” del brand o del “gioco” specifico. Questa commistione di scopi, interessi e necessità delle diverse parti, continua a generare una terrificante “evoluzione della “nostra specie” orientandola verso una china pericolosa. Il sistema del cosiddetto “intrattenimento”, sviluppando e diffondendo modelli di “gioco violento” ha generato mostri che esteticamente non sembrano tali e che, peggio ancora, vengono seguiti da chi è destinato a diventare apprendista mostro. Certo il gioco genera anche lavoro, ma gran parte del lavoro che “genera” è solo un utile strumento per distrarre alcune migliaia di persone dall’essere attive positivamente nella società. Questo genere di giochi e rappresentazioni violente hanno già generato forme di dipendenza apparentemente innocue, ma che nei fatti distolgono l’attenzione dalla realtà e generano spreco di intelligenza e assenza di responsabilità e consapevolezza. In molti casi il problema va anche oltre il gioco, che in alcuni casi diventa compulsivo, portando il “soggetto” (quasi sempre giovane) a isolarsi dal mondo reale se non addirittura a non riconoscere la differenza fra reale e virtuale, bene e male. Esiste ormai una nutrita popolazione di giovani che come conseguenza di questi “giochi”, seguono altri giovani e popolano la rete con video demenziali e imbarazzanti, seguiti, appunto, da milioni di “fan”. Nuovi “personaggi”, definiti “produttori di contenuti” da aziende e agenzie che agiscono per loro come veri e propri agenti, come accade per le star del cinema. Casi che in tutto questo imbarazzante contesto sfociano spesso nella violenza autoinflitta o, peggio, verso altri. E tutto questo popolatissimo mondo, che vive soprattutto nel virtuale, è capace di produrre ricchezza economica per i suoi protagonisti. C’è da riflettere sul mondo che ci aspetta. Anche questa è una pandemia.

Pietro Greppi

ethic advisor e fondatore di Scarp de tenisPer entrare in contatto con l’autore: info@ad-just.it

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