“IL LINGUAGGIO DEL CIBO” CHE SI FA LINGUA
“Il linguaggio, è il complesso definito di suoni, gesti e movimenti attraverso il quale si attiva un processo di comunicazione. Una lingua è, in linguistica, un sistema di comunicazione parlato o segnato proprio di una comunità umana. Indica quindi una forma concreta della facoltà umana del linguaggio, specifica di una determinata comunità. Si parla quindi delle singole lingue (l’italiano o l’inglese per esempio) come manifestazioni specifiche del linguaggio.” (da wikipedia)
Se è così diffusa la sua presenza, la sua narrazione, l’elogio, la rappresentazione, le interpretazioni … la prima cosa che possiamo affermare è che il modo di considerare il cibo sia di fatto un linguaggio. Forzando un po’ le regole della lingua italiana possiamo osare chiamarlo “il linguaggio del cibo”, perché in realtà non è il cibo che parla, ma noi che comunichiamo tramite il cibo. Un linguaggio che, diversamente da altri, riguarda anche la comunicazione con sé stessi, con il proprio organismo, oltre che essere un gesto che prevede scelte indispensabili per nutrirci.
È un linguaggio che a seconda dei luoghi, dei contesti, del territorio, del clima … assume nel tempo le regole di una lingua condivisa in una comunità che può essere di varie dimensioni. Tante comunità, tante lingue. E allora anche qui prendiamoci una licenza e definiamo queste lingue “le lingue del cibo”. Possiamo convincerci di quanto questo sia vero riflettendo su cosa rappresentino le ricette “tipiche” che assumono l’aspetto, la consistenza, il sapore di un linguaggio tramutatosi in lingua locale. Ogni comunità, ogni famiglia e ogni individuo elabora la sua lingua preferita, che riesce a far comprendere, a riprodurre, a trasmettere anche ad altri perché le sue basi e le sue funzioni sono le medesime ovunque.
Se mangiare è una necessità universale, basata su codici altrettanto universali che provengono dagli stimoli vitali che ci comunicano la fame, la comunicazione del come mangiare, cosa, in che momento, in che forma … è invece un’evoluzione linguistica che ha trasformato il linguaggio del cibo in un complesso variegato di significati. Ogni variazione di una stessa ricetta diventa così un dialetto che la identifica. E la ripetizione di questa ricetta costruisce legami di comunità che serviranno a dialogare con altre comunità in un costante e reciproco scambio di “regole”, conoscenze, esperienze, variazioni.
Il cibo che ci nutre è un dialogo con noi stessi. Quello che offriamo e condividiamo è un dialogo anch’esso. E nel mondo si moltiplicano i modi di sentirlo o di porgerlo, di prepararlo o di mangiarlo. Così se impari a riprodurre una ricetta impari una lingua.
Ma come tutte le lingue anche quella del cibo, oltre che unire, può creare anche divisioni.
Divisioni che possono manifestarsi come semplici preferenze, ma anche degenerare in pretese di imposizione di una “lingua del cibo” o nella negazione della legittimità di un’altra che da questa si differenzi. Dissapori che si sviluppano soprattutto nella nostra epoca con diatribe innescate da comunità che esprimono estremismi “linguistici” che conosciamo con vari nomi: vegani, vegetariani, fruttariani, etc.
Ma resta che, “estremismi linguistici” a parte, le lingue del cibo nascono, si modificano con l’uso che ne facciamo, alcune scompaiono, ma le ritrovi sui libri, altre si ibridano, altre tendono a cambiare insieme alle epoche, ma tutte rappresentano un patrimonio ineguagliabile la cui ricchezza ancora una volta è rappresentata dalla sua varietà.
Pietro Greppi
ethical advisor e fondatore di Scarp de tenis
Per entrare in contatto con l’autore: info@ad-just.it