LA MORTE DELLA PUBBLICITÀ.
Credo sia arrivato il momento di dire che la pubblicità per come la conosciamo e per come viene condotta e alimentata oggi, non ha più senso di esistere. Fino ad oggi ne ho parlato sempre prendendola alla larga, con fermo garbo, ma rischiando di apparire visionario e utopista parlando di etica. La pubblicità è diventata addirittura pericolosa per se stessa e per gli altri. Serve un Rinascimento. E lo dico sperando che le persone che leggono siano i dirigenti di aziende che investono per farsi conoscere, così come spero che chi legge siano i pubblicitari, soprattutto i loro dirigenti di multinazionali della comunicazione che in questo hanno enormi responsabilità individuali. Ai quali devo anche dire, con una citazione, che: “Non si può risolvere un problema con la stessa mentalità che lo ha generato”.
I modelli comunicativi adottati fin qui sono diventati simili ad un virus che si propaga in modo sempre più deleterio grazie al fatto che si alimentano di sé stessi e grazie alla tecnologia che in sé ha quello spirito democratico e acritico che ha consentito alla stupidità di prendere il sopravvento. Per farmi capire sono costretto a descrivere panorami apparentemente estremi che invece sono sotto gli occhi, annebbiati dall’abitudine, di chiunque li voglia vedere.
La libertà di produrre e di vendere qualunque cosa ha trovato strumenti straordinariamente potenti che vengono usati con pericolosa superficialità dagli addetti ai lavori. E tutto questo ha prodotto un degrado impressionante della qualità del pensiero di un enorme numero di persone che alla stupidità, riprodotta “n” volte da siparietti pubblicitari, si sono assuefatte assecondandone la presenza. Dire queste cose espone alle critiche, ma qualcuno questo rischio lo deve prendere e io lo faccio volentieri. I modelli comunicativi che critico hanno prodotto un’umanità affamata di novità, che si sente felice di possedere cose e di passeggiare davanti a vetrine attraenti. Legittimo. Ma il problema subentra nel momento in cui se scompare la vetrina, quelle persone si sentono perse e private di un diritto. Le priorità si sono spostate verso l’appagamento di desideri legittimi, ma indotti artificialmente e di cui però neppure chi li ha pensati riesce più a riconoscerne l’artificiosità. La comunicazione commerciale si è introdotta nella vita delle persone e molte ne hanno assorbito la pessima qualità.
Serve un cambio radicale. Un cambio che dovrebbe prevedere un momento di transizione per riflettere. Quello che si vede oggi è più la rivisitazione costante di vecchi modelli rivestiti di idee più o meno felici e più o meno edificanti. Cambiano i media su cui appaiono, ma i contenuti stentano a emergere, perché mancano, e certi marchi risultano addirittura presuntuosi e distanti anziché vicini alle persone di cui desiderano invece il pieno consenso. Dilagano pericolosamente la retorica e la costruzione artificiale di contesti improbabili a cura di aziende che però producono oggetti, alimenti e servizi reali, destinati ad essere comprati da persone reali, che vivono nel reale. Non in una fiction.
Le aziende non sono estranee alla società. Anzi.
Pietro Greppi
ethical advisor
fondatore di Scarp de tenis
fondatore del Laboratorio per la realizzazione di GESTO
– il Linguaggio universale dei segni – non verbale
Per entrare in contatto con l’autore: info@ad-just.it