LA PAURA COME STRUMENTO COMMERCIALE
Da tempo sta avvenendo un’“evoluzione”, eticamente insopportabile, delle strategie comunicative verso una forma di manipolazione del linguaggio e della mente. Si sviluppano come fossero naturali, ma generate in realtà dalle scelte consapevoli di molti comunicatori per risolvere problematiche commerciali. Nascono dall’idea, per alcuni necessaria, di vendere ad ogni costo anche a costo di confondere le logiche del destinatario del messaggio. Un esempio: cosa evocano oggi le parole “moderno” e “progresso”? Erano termini che suggerivano ottimismo, benessere diffuso, felicità… Oggi è in atto una revisione dei loro significati di cui neppure ci accorgiamo perché è diventato un processo culturale. Anzi, commerciale. In pubblicità “il progresso” sta assumendo il volto di una subdola minaccia di esclusione che le persone meno attrezzate culturalmente assorbono come spugne adeguandovisi supinamente: il termine “progresso”, con i suoi sinonimi, viene evocato con l’implicita accezione che “se non ti adegui resti indietro, diventi obsoleto, inadeguato, vecchio, da rottamare…”. Tali “strategie” inducono reazioni assimilabili alla “paura”. Una paura che “promuove l’omologazione”. La paura di rimanere “indietro” sta occupando la mente di molti, spingendo chi ne è vittima a cercare protezione da qualunque cosa possa mettere a rischio il suo essere “al passo con i tempi”. Prolificano quindi assicurazioni in ogni contesto perché abbiamo paura di perdere quanto pensiamo di aver conquistato. Aumenta la ricerca di rassicurazione di essere nel giusto, di essere aggiornati, adeguati, accettati. Con la complicità irresponsabile di chi lavora nella comunicazione commerciale stiamo costruendo una società isterica e terrorizzata dall’idea di “restare indietro”. Ci ingolfiamo di sostanze nutritive manipolate artificialmente e poi di medicine che ne allontanino gli effetti collaterali. Ci allontaniamo dalla terra per poi riportarla fin sui grattacieli, come un simulacro paragonabile a quando conserviamo le foto di un caro estinto. Per prevenire i danni del fumo non smettiamo il vizio, ma elaboriamo complessi artifici per riprodurne il rito; cerchiamo una ricchezza illusoria e quella che abbiamo la buttiamo nelle lotterie, vogliamo la libertà e innalziamo muri, chiediamo e offriamo amicizie virtuali, ma prima di immergerci nel reale guardiamo telecamere di sorveglianza, compriamo strumenti per la difesa personale, ci barrichiamo dietro sbarre, porte blindate e auto inutilmente enormi dotate, “a nostra difesa”, di corazze e palloncini. La modernità è diventata sinonimo di cose che non c’erano prima, ma non necessariamente utili a farci stare bene. Le città, nate come luoghi di aggregazione intorno alle promesse di modernità, lavoro e agio, si sono trasformate in “campi profughi per gli sfrattati dall’agricoltura” che nel frattempo è diventata terreno di sfruttamento irresponsabile. La città, da luogo “sicuro” si è trasformata in un fortino diffuso. Ma il concetto di protezione e di difesa si è anche atomizzato, esasperato al punto che una semplice panchina, nata per accogliere e ristorare dalla stanchezza, è diventata “area protetta” contro l’uso prolungato da parte di persone senza dimora. Gli spazi pubblici diventano esposizioni di oggetti improbabili o giardini esteticamente discutibili, asettici e non ludicamente fruibili… quando invece dovrebbero essere luoghi di incontro perché l’incontro è conoscenza e dissolve la paura. Virtualmente accomunati dal fatto di coabitare le città, si pensa di conoscere gli altri solo perché comprano e fanno le nostre stesse cose, e quindi di avere con loro molto in comune… e questo porta tanti a credere giusto pensare che chi viene da fuori potrebbe portarti via qualcosa. L’esclusione prevale sull’inclusione. Il possesso impedisce la condivisione. Il concetto di progresso va ripensato con spirito critico, perché crescere non significa solo aumentare di dimensioni. E in questo le aziende e le agenzie possono fare molto senza abdicare alla funzione di comunicazione commerciale. Basta volerlo. Serve un certo impegno. Anche creativo. Ma laterale rispetto a quello attualmente in voga.
Perché il progresso non può essere la gioia di essere migliori di altri, ma solo di essere migliori.
Pietro Greppi
ethical advisor e fondatore di Scarp de tenis
Per entrare in contatto con l’autore: info@ad-just.it