RENDERE INCLUSIVA LA PUBBLICITÀ GIOVEREBBE ANCHE AI PUBBLICITARI
Quando critico la pubblicità non è perché la pubblicità sia sbagliata in sé, anzi. La questione è “come” viene prodotta, per cosa e “da chi” e… Se c’è qualcosa da correggere/migliorare, che c’è -eccome se c’è- sta nei troppi addetti ai lavori che con buona evidenza si dimostrano scarsamente formati per comprendere l’utilità potenziale, ma scarsamente espressa, di questo strumento che essi stessi sottovalutano o, peggio, male interpretano… da cui deriva che i risultati degli sforzi creativi messi in gioco sono ahimè oggettivamente deludenti e poco degni delle ingenti risorse e degli enormi spazi di cui dispongono. Una certa auspicabile evoluzione possibile potrebbe consistere, per esempio, nel dare ascolto a chi vorrebbe, ma non può, sentire o vedere ciò di cui la pubblicità si fa “portavoce”. Mi riferisco a coloro che non vedono o non sentono a causa di quelle che definiamo frettolosamente “disabilità”. Dare ascolto a queste “esigenze” consentirebbe di rendere inclusivi i messaggi che vengono trasmessi anche dal mondo commerciale. E sarebbe opportuno che a questo impegno si aggiungesse anche quello della qualità dei contenuti e dell’onestà degli stessi. Ma andiamo in fiducia e proviamo a dare per scontato che questo possa avvenire e che l’impegno in tal senso venga messo in atto. Da dove cominciare? Dall’osservare per esempio gli spot che circolano in tv e sui social: a parte l’attuale assenza di qualità dei contenuti (perdonate, ma è oggettivamente così), si nota in quasi tutti la mancata applicazione di quell’utilissima regola di base che, un tempo, veniva trasmessa durante la formazione tecnica dei creativi. La regola era (ed è) di puro buon senso: consiste nel verificare se lo spot risulti comprensibile sia vedendolo senza audio, sia ascoltandolo senza video. Un esercizio in cui, nel caso di assenza del video, sono più allenati coloro che producono contenuti per la radio. Tuttavia, quando a mettersi al lavoro su un progetto di comunicazione è “una squadra” dovrebbe accadere che le diverse competenze e le esperienze si incrociassero fondendosi fra loro, ma non è detto che questo accada. E la prova è “on air”: basta guardare e sentire separatamente tutto quello che viene prodotto. La “regoletta” cui ho fatto riferimento ha un suo motivo di esistere: rendere massima la comprensione del messaggio commerciale contro il quale agiscono cause di vario tipo. I rumori ambientali possono coprire l’audio dello spot, per cui ci si dovrebbe preoccupare che le immagini parlino… Ma se qualcuno fosse distratto e non vedesse le immagini? Basterebbe che l’audio fosse esauriente e chiaro… Fate una prova e avrete delle sorprese anche sui vostri stessi lavori, sia che siate “l’azienda”, sia che siate “l’agenzia”. Potrete accorgervi da soli di quanto sia davvero chiaro o meno il vostro messaggio. Sorprende soprattutto che in molti spot, facendo quella semplice verifica, il messaggio non risulta chiaro né in video, né in audio. Un disastro per l’investimento dell’inserzionista. Verrebbe quindi da chiedersi quante e dove siano le disabilità di cui preoccuparsi oltre a quelle della vista e dell’udito. Ma a parte la battuta volutamente acida che rivolgo ai creativi e alle aziende per cui -o in cui- lavorano, resta che occuparsi delle difficoltà di accesso alle informazioni trasmesse sui vai canali, dovrebbe essere l’impegno di ogni professionista che sia tale. L’essere capaci di approccio inclusivo dovrebbe entrare nei curriculum di chiunque e ne andrebbe verificata sempre l’effettiva consistenza. So che da alcuni anni Procter & Gamble si sta adoperando per rendere inclusivi i propri messaggi commerciali con l’evidente obiettivo di raggiungere un bacino più esteso. Pare che gli ostacoli in Italia siano soprattutto nella capacità delle infrastrutture, perché servirebbero ulteriori investimenti sia delle aziende per modificare gli spot, sia dei network TV per adeguare la loro tecnologia alla trasmissione di questi contenuti. Spero che questa ricerca/intento contagi tutti coloro che operano nel settore, ma mi auguro contemporaneamente che questo produca una crescita culturale in chi è coinvolto, perché avvenga che l’impegno dichiarato non si limiti al tentativo di vendere di più, bensì di contagiare il maggior numero di persone nell’attenzione verso l’altro e nella capacità di comprenderlo e farsi comprendere affinché la pubblicità non si limiti ad essere l’anima del commercio.
Pietro Greppi
ethical advisor e fondatore di Scarp de tenis
Per entrare in contatto con l’autore: info@ad-just.it