INFLUENCER… MA PERCHÉ?

Non è chiaro perché, né quando di preciso, ma senza dubbio è successo (ormai da un po’) che ad un certo punto le aziende hanno perso fiducia in sé stesse. Meglio però precisare che questo “salto indietro rispetto alla consapevolezza, alla capacità di parlare di sé, al coraggio di affermare con orgoglio ciò che si produce e si vende” è da attribuire alle persone che gestiscono le aziende che, pian piano nel tempo, sono “cambiate” indirizzandosi verso un processo di apparente normale avvicendamento, portando con sé capacità diverse pseudo moderne, ma perdendone altre. Quali di queste capacità e consapevolezze siano preferibili agli scopi di sviluppo ed evoluzione di un’azienda potrebbero essere definibili soggettivamente, ma solo fino ad un certo punto. Perché non si spiega altrimenti come siano riuscite le agenzie di pubblicità (oggi ormai inglobate a loro volta in sistemi onnivori e uniformati a logiche soprattutto numeriche), a far credere a chi governa aziende, di dimensioni anche rilevanti, che per parlare dei loro prodotti si dovessero assumere dei testimonial famosi, spesso famosi solo per essere molto presenti nei vari media, ma con nessuna qualità attinente (se non fantasiosa e irreale) i prodotti per parlare dei quali vengono pagati. E già vedere un personaggio, in qualche modo già noto al pubblico, che promuove un prodotto o un servizio industriale poteva portare a interrogarsi sul perché di tale scelta e del perché l’azienda non scegliesse di utilizzare un proprio diretto rappresentante o anche solo una propria comunicazione istituzionale. Va “riconosciuto” che il testimonial è uno strumento usato già fin dagli albori della pubblicità. Resta però che questa scelta si può giustificare solo se, chi la fa, pensa che il suo pubblico sia “abbindolabile” e distraibile, che forse è proprio la risposta più realistica perché è poi successo che il tempo abbia suggerito alle aziende un salto ancora più artificiale e quindi ancora meno comprensibile. C’è stato infatti un graduale passaggio, dal testimonial noto verso il personaggio la cui notorietà viene prodotta on line attraverso tecniche e contenuti discutibili e sinceramente imbarazzanti per il vuoto di cui sono colmi, ma da cui inspiegabilmente (?) un certo pubblico viene attratto. In quest’ultima “evoluzione” e trasformazione di “valore” percepito (seppure inesistente) il sistema della comunicazione commerciale sta abbracciando sempre più l’influencer, figura valutata per la influenza commerciale per la quantità di follower che attrae. Gli influencer sono diventati una categoria di persone che taluni presumono sia possibile pesare in relazione alla loro capacità di farsi seguire da chi, nella rete di internet e in particolari contenitori definiti indebitamente “social”, decide di seguire un altro iscritto o una pagina business per riceverne contenuti e aggiornamenti. Le valutazioni attribuite all’influencer si basano anche sui cosiddetti like (simboli riproducenti una mano chiusa con il pollice alzato) con cui il follower sottolinea il suo gradimento (spesso basato nient’altro che su una qualche forma di simpatia o concordanza). Su questi personaggi le aziende spostano incredibilmente milioni di euro per sostenerne le attività o per sfruttarne in qualche modo la visibilità. Capita sempre più spesso che questi personaggi vengano addirittura “generati” di proposito con investimenti che consentono di sottoporli al pubblico in modo oggettivamente forzoso, studiato a tavolino e incredibilmente accolto dal pubblico. Una tendenza che sta accelerando il proprio “perfezionamento” formando anche “esperti” nell’ingaggiare e utilizzare potenziali influencer utili agli scopi di determinate aziende. Sono in corso anche tentativi di fare ulteriori passi in avanti (?) generando personaggi digitali (non umani quindi) che riproducono sembianza umane e animati da algoritmi capaci di intrattenere una qualche relazione con generazioni di giovani ormai sempre più abituati a confrontarsi “on-line” con chiunque trovino via web. Viene da chiedersi dove risiedano i meriti e su cosa si basino quindi le iniziative costruite a tavolino dalle aziende o dai follower che le aziende foraggiano. Sul piano tecnico e in relazione alle liberta dell’individuo tutto bene. Liberi tutti. Ma dovremmo analizzare cosa stanno generando questi comportamenti di aziende e agenzie che evidentemente considerano il loro pubblico come un’entità dotata di scarsa cultura e capacità critica. Mi piacerebbe scoprire che il consumatore è più consapevole e responsabile degli influencer che segue. Ho appena assistito dal vivo ad un concerto di musica del ‘700. I 40 straordinari musicisti erano tutti giovani di circa 20 anni. C’è qualche speranza che le cose migliorino.

Pietro Greppi

ethical advisor e fondatore di Scarp de tenis

Per entrare in contatto con l’autore: info@ad-just.it

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