SAPETE PARLARE, SAPETE SCRIVERE, SAPETE LEGGERE… MA NON È DETTO CHE QUALCUNO VI CAPISCA!

Scrivere: ci viene insegnato alle elementari. Veniamo istruiti a disegnare ogni singola lettera del nostro alfabeto e a metterle sia in “ordine alfabetico”, sia nelle possibili combinazioni fra loro a formare le parole che usiamo per comunicare con gli altri… parlare sembra più facile e infatti prima di imparare a scrivere impariamo a parlare. Ma non è detto. Poi ci esercitiamo a leggere, a comporre testi in forma scritta e ad esporre oralmente, affiancati da chi ha imparato a farlo “correttamente” prima di noi, che solitamente è un adulto.Ma non è detto. Dipende dal contesto sociale. Poi il percorso scolastico -e di vita- ci sottopone a svariate occasioni di verifica della solidità di quanto abbiamo assorbito e come. Avviene in modo diretto e indiretto attraverso l’assimilazione di concetti, testi e formule, contenute in quelle che chiamiamo “materie”, che formuleranno il nostro “sapere” comune o personale. La vita diventa così anche una palestra che ci consente di rifinire quotidianamente le nostre risorse verbali. Confrontandoci con gli altri riceviamo segnali più o meno diretti delle nostre capacità di trasferimento del nostro pensiero, dei nostri contenuti, etc. Tuttavia questi “segnali” non è detto che ognuno di noi sia in grado di rilevarli e considerarli. Ognuno ha il suo personale radar per accorgersene. Ma non è detto. Perché c’è chi non sa di averlo, chi non sa usarlo, chi intenzionalmente non lo considera… Ognuno di noi comunica in modo anche impercettibilmente diverso da ogni altro e quello che sempre accade è che la comprensione di chi ci legge o chi ci ascolta è inevitabilmente sempre parziale.

Di una lettura o di un ascolto, ognuno coglie porzioni più o meno estese. Ma non è detto. Ognuno di noi interpreta sempre a modo suo ciò che sente e ciò che legge. E il contesto sociale, quale che sia, incide sempre molto nella qualità delle relazioni fra soggetti comunicanti. Ciò risulta evidente quando persone di un determinato gruppo omogeneo si trovano a confrontarsi con altri gruppi o singoli di “diversa estrazione”.

Succede ad esempio -ed è quasi diventata una nota di colore– quando certi medici parlano ai pazienti, o un accademico parla con un pubblico che accademico non è.

Se accade che i tuoi interlocutori o i tuoi lettori non ti capiscono, significa che non ti sei spiegato “per loro”. Cioè non hai usato un percorso verbale a loro comprensibile e chiaro quanto a te sembrava fosse. Succede a tutti, più spesso di quanto si creda, e le conseguenze prodotte da questi “incidenti” variano in relazione al contesto in cui si verificano. Assistiamo quotidianamente (o viviamo in prima persona) a fraintendimenti, disagi, contestazioni, risse, processi, violenze, diverbi e perfino guerre… tutte vicende che nascono dal confronto fra individui che per vari motivi non si capiscono nonostante sappiano scrivere, leggere e parlare. Ma non è detto.

Il settore della comunicazione pubblicitaria non è esente, né estraneo a questo tipo di eventi. Anzi, in questo ambito dovrebbe (condizionale d’obbligo) essere molto più presente la consapevolezza della propria responsabilità in merito alle conseguenze generabili da parole trasmesse, per scopi commerciali, ad un pubblico che è oggettivamente impossibile affermare, o anche solo presumere, di conoscere. Le parole sono strumenti di cui possiamo avere un controllo tanto più preciso ed efficace quanto più ci poniamo interrogativi su quali siano le più adatte per essere compresi da chi abbiamo davanti. Ma non è detto.

Pietro Greppi

Consulente per l’etica in comunicazione

Fondatore di Scarp de’ tenis

Per entrare in contatto con l’autore: info@ad-just.it

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