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A cosa può servire fare pubblicità all’assunzione o all’impiego di persone dotate di qualche caratteristica particolare che le rende meno comuni, se questa “pubblicità” intende generare plausi, consenso e attenzione su quelle persone e su chi le coinvolge nelle proprie iniziative di comunicazione? Ha senso? A chi serve davvero? L’uso strumentale di queste pratiche è dietro l’angolo. E la strumentalizzazione è spesso travestita -più o meno consapevolmente- da buone pratiche, inclusione o, peggio, responsabilità sociale. Chiariamo: non è che buone pratiche, inclusione e responsabilità sociale siano da censurare. Tutt’altro. Sono però da “censurare” le iniziative di coloro che descrivono e parlano di certe scelte usando quei termini pur non essendone portatori credibili. Credo sia necessario fare esempi che rappresentino chiaramente queste situazioni molto diffuse, ma condotte con modalità che variano dall’inopportuno al meritevole. È comunque un tema delicatissimo sebbene dovrebbe essere neppure da considerare, perché la diversità è un dato di fatto che pervade l’umanità. Nessuno è uguale a nessun altro e ogni diversità è manifesta. Colori e forme soprattutto, che delineano e definiscono il nostro aspetto. Poi le lingue e i linguaggi che derivano da culture locali e coordinate geografiche. A tutto questo si aggiungono le varie forme di abilità intrinseche o potenziali, fisiche e mentali. E le migliaia di combinazioni di tutte queste caratteristiche siamo abituati a chiamarle con altrettanti nomi: ci serve per rassicurarci. Come se dargli un nome ci facesse sentire meglio. Detto questo torniamo alla domanda iniziale, perché noto con disappunto il crescendo in pubblicità di un uso strumentale di alcune umane diversità. Gli interessi commerciali delle aziende commerciali cercano di combinarsi con le esigenze di affermazione e riconoscimento di tutte quelle “combinazioni di colori, forme e contenuti che si distinguono più di altre e che pare siano fonte di imbarazzi da sedare”. Aziende, associazioni ed enti, dopo essersi a lungo e reciprocamente ignorati, è come se cercassero ora forme di collaborazione apparentemente capaci di fornire aiuto reciproco, comunicando insieme. Finalmente si potrebbe dire. Peccato però che da una parte ci sia sempre un malcelato interesse commerciale, poco educato a gestire ambiti così attinenti con la vita reale, e dall’altra l’eccessiva ingenuità di individui e associazioni che rappresentano alcune manifestazioni delle infinite possibili diversità. Ed ecco che troviamo, negli spot e nelle campagne in genere, alcuni portatori di particolari diversità, le cui vite vengono assorbite e inglobate in contesti che con la loro particolarità non hanno alcun legame. Tutto però viene argomentato grazie alle doti manipolatorie del comparto della comunicazione commerciale che, grazie ad abilità mal riposte, è capace di illusionismi straordinariamente efficaci e quindi capaci di attecchire su menti flagellate da sottili retoriche martellanti, tramite le quali una scelta viene presentata imprudentemente come una conquista quando è solo una forma di strumentalizzazione. Gestire il concetto di visibilità applicato ad un obiettivo di inclusione impone di essere doppiamente attenti alle scelte comunicative. Il fatto che ci si lasci sedurre dal sistema della pubblicità e da qualche famoso brand dovrebbe costringere ad invitare a fare riflessioni sugli effetti collaterali che si possono produrre e “riprodurre”: l’obiettivo di un’iniziativa qual è? Per dire cosa e a chi? Con l’ipocrisia si strumentalizzano i sentimenti e si generano modelli. Il principio di parità e di cambiamento culturale, deve per forza passare dall’uso di un prodotto? Lo spettatore rischia di dare per scontato che sia normale approvare e riprodurre artifici senza cogliere che certe aziende strumentalizzano (abilmente) ogni cosa possibile e con lo scopo di aprire o consolidare il loro mercato generando, senza accorgersene (?), sentimenti di inadeguatezza proprio tramite l’uso strumentale di individui particolari, che risultano privilegiati rispetto a coloro che dovrebbero invece rappresentare. Riporto una frase illuminante di Chef Antonio (Asti), che ha assunto -senza tanti fronzoli e nessuna pubblicità strumentalmente sponsorizzata– alcuni ragazzi con sindrome di down. Riflettendo sulla sua straordinaria personale esperienza di formazione ha dichiarato: “… è la finzione che rovina i ragazzi. Non la verità”. Quanta verità! Download!
Pietro Greppi
ethic advisor e fondatore di Scarp de tenis
Per entrare in contatto con l’autore: info@ad-just.it