L’IMPORTANZA DELLE PAROLE (LE VISIONI LATERALI, GLI EFFETTI COLLATERALI E L’ETICA)
Conoscete tutti quel foglietto informativo chiamato bugiardino che per legge deve accompagnare i farmaci. Indipendentemente dalle ragioni storiche che hanno condotto a quel nome e fuori da sottili ragionamenti semantici, il nome evoca la bugia. Ed è un’evidente forma di autolesionismo per un comparto dove la salute chiede verità. Un errore sottostimato cui però non si fa più caso per abitudine, nonostante si sappia che ciò che evocano le parole lascia un segno in chi le legge o le ascolta, influenzando il nostro modo di pensare, criticare, reagire. Siamo infatti il risultato delle nostre esperienze e quindi una combinazione di elementi in costante mutazione. Che il mondo della medicina non abbia ancora considerato di intervenire sul termine in questione per leggerezza, distrazione, disinteresse… offre però l’occasione di riflettere sugli aspetti controproducenti di certa comunicazione che imprese, in ogni categoria, continuano a riprodurre nel tempo, senza che qualcuno si fermi a riflettere. Andrebbe però fatto periodicamente, soprattutto perché la ripetizione (tipica caratteristica della pianificazione pubblicitaria) ripete inevitabilmente anche i difetti di un messaggio. Fare più attenzione e praticare costantemente l’autocritica basterebbe a scoprire che ci sono scelte di comunicazione che danneggiano, anziché arricchire, la reputazione di un’impresa e il suo rapporto con i clienti che ne giustificano l’esistenza. Noto da osservatore che, nonostante le aziende chiedano spesso e a gran voce “novità” ed efficienza per la loro comunicazione, non si è ancora realizzato un vero cambiamento nella costruzione dei messaggi pubblicitari. Forse perché il termine “novità” dice tutto e niente o perché viene richiesto a chi non è in grado di innovare o per la generale mancanza di coraggio o perché: “Dopo anni che applichi e tramandi sempre lo stesso modello, sei diventato tu stesso il modello!” Il nostro modo di agire è anche il frutto di azioni che abbiamo visto fare da altri, senza sapere davvero bene il perché (illuminante “the banana experiment” https://sociologicamente.it/the-banana-experiment-la-nascita-delle-tradizioni/).
Proporre cambiamenti, correzioni, critiche, riflessioni… dovrebbe essere una costante per ogni impresa, ma la pubblicità non muta se non dal punto di vista estetico o per quanto riguarda i mezzi su cui viaggia. Non sono cambiamenti le nuove tecnologie o i nuovi media e non lo sono le professioni che queste generano. Si tratta semmai di cambi di attrezzi da lavoro. Ma se il prodotto dell’intelligenza e della creatività, applicate alla tecnologia, è sempre la finzione in una “scenetta”, la ricerca di una battuta, la passerella di un famoso o un mini film … dov’è il cambiamento? Gli attuali modelli comunicativi risultano rivisitazioni di modelli tramandati di cui si è perso il pensiero originario, con il risultato che gran parte delle campagne trasmettono ormai un vuoto di contenuti che si è allargato e che rischia di svuotare anche il significato dell’investimento dell’azienda. E questo è un atteggiamento quantomeno stupido. Serve davvero scomodare una frase di Einstein per capire che per cambiare è necessario agire e pensare in modo diverso e cambiare paradigmi? Un periodo di crisi come questo andrebbe considerato come il momento giusto per cambiare registro e inaugurare una nuova era della comunicazione, inclusa quella pubblicitaria. Pensando nuovi approcci e nuovi obiettivi. Riflettendo sulle potenzialità non sfruttate del proprio ruolo. Recuperare il buonsenso, il buongusto, la visione di grandi progetti e ripensando i contenuti da trasmettere, interrogarsi se sia necessario “iperbolizzare” qualunque cosa per venderla. Dovremmo parlare degli effetti collaterali della pubblicità non ricercati, ma ugualmente prodotti dalla comunicazione e da me “evocati” anni fa come il risultato della mancata etica nella comunicazione. Questione a lungo inascoltata e apertamente evitata dal comparto come “ostacolo alla crescita” (del fatturato!).
Oggi se ne parla, ma per circostanza o come strategia da usare, confondendola con la deontologia, la correttezza e la legalità. Se la pubblicità avesse il suo bugiardino, dovrebbe allegarlo ad ogni spot, quando per esempio ci si accorge che incide sulle abitudini alimentari producendo obesi di ogni età. O quando qualche giovane fraintende i modelli della pubblicità, manifestando personalità disturbate. O quando da una campagna pubblicitaria si raccoglie indignazione e nessun risultato positivo. C’è sempre un perché.
Pietro Greppi
ethic advisor e fondatore di Scarp de tenis
Per entrare in contatto con l’autore: info@ad-just.it