LA PUBBLICITÀ NON È COMUNICAZIONE UTILE.
MA PUÒ LAVORARE PER DIVENTARLO.
QUESTIONE DI RELAZIONI.
La pubblicità commerciale vorrebbe sentirsi sorella della comunicazione. Ma non lo è. Perlomeno non ancora e non nel senso che gli viene indebitamente attribuito dai tanti pubblicitari (quasi tutti) rimasti ancorati a presupposti e paradigmi che, se un tempo potevano purtroppo essere anche giudicati sostenibili e assennati, oggi non lo sono certo più. Anzi. Tuttavia gli eventi di questo periodo (gli ultimi due anni soprattutto) potrebbero rivelarsi buoni consiglieri e offrire un motivo in più per prepararsi a diventarlo.
Sarebbe un obiettivo auspicabile e risulterebbe un riscatto da tempo atteso da chi della pubblicità non ne può più, per via del vuoto di valori che, nel tempo, la sua pervadente invadenza e inspiegabile ripetitività (anche se troverai sempre chi lo saprebbe spiegare) hanno creato e “coltivato”. Ci vuole però l’impegno di tutti gli attori, protagonisti o comparse che siano. È arrivato il momento in cui le aziende dovrebbero investire meglio le risorse altrimenti destinate alla loro “pubblicità” perché, per motivi strettamente collegabili alle emozioni che le persone provano soprattutto in questo periodo, dovrebbe risultare evidente che si sta diffondendo, in modo sempre più profondo, la richiesta di concretezza, serietà, onestà. In sostanza le persone tendono a sentire più di un tempo la necessità di relazioni e attenzioni, esigenze da tempo trascurate e tralasciate perché il mondo della pubblicità tende a pensare a se stesso dicendo però -con ipocrita convinzione- che pensa al consumatore.
Ciò che fa oggi la pubblicità (i pubblicitari) sono operazioni pianificate per veicolare informazioni ad un pubblico immaginario o ideale secondo un preciso obiettivo di consumo. L’intenzione è sempre quella di influenzare le emozioni e quindi il comportamento delle persone. Ma per fare cosa? Comprare un prodotto dicendo poi “fate i buoni”? O per appiccicare una tantum il proprio marchio su un’operazione “benefica”? …Ma per favore!
Oggi sarebbe più opportuno che i pubblicitari ricostruissero la loro relazione con le aziende, per far fare loro un salto di qualità e farsi “autorizzare” a gestire il denaro destinato alla pubblicità, per costruire invece comunicazione utile e progetti degni di chiamarsi così, magari anche insieme ad altre aziende, o addirittura con aziende concorrenti. Perché no?! Sarebbe possibile se si cambiasse l’obiettivo principale: voler vendere è talmente banale che è quasi imbarazzante insistere a dirlo nascondendosi dietro a messaggi artificiali e sinceramente ormai ridicoli.
Il potere delle dimensioni economiche di aziende già affermate (popolate da persone e non da entità astratte) dovrebbe cominciare a servire a costruire importanti relazioni con gli stessi destinatari del prodotto, se non addirittura di un numero maggiore di anime che chiedono sempre più attenzioni o opportunità di migliori relazioni e maggiori opportunità di sentirsi parte di progetti che trasmettano la volontà di inclusione e non quella di sottolineare l’insopportabile invito ad essere “esclusivi”.
I profitti delle aziende devono oggi generarsi dalla continua trasmissione circolare di valore e di valori che appartengono -quando ci sono e sono stimolati e sostenuti- agli individui e non ai marchi. I marchi devono essere veicoli di messaggi che illustrino progetti sostenibili di convivenza civile. Le aziende devono immaginare di poter diventare grandi fautrici e sostenitrici di una società dove le relazioni fanno crescere la qualità delle persone e dei loro insiemi. Chi punta oggi a crescere pensando solo al fatturato è destinato a scontrarsi con un mondo che non è più disposto ad accettare l’egoismo e la superficialità. Quando dipendenti licenziati in massa si comprano l’azienda che li ha licenziati … secondo voi… significa o no che le cose sono cambiate e sono più razionali e relazionali?!
Pietro Greppi
ethic advisor e fondatore di Scarp de tenis
Per entrare in contatto con l’autore: info@ad-just.it