ARIA FRITTA NE ABBIAMO?
Ci sono questioni che trovo siano da chiarire con una certa urgenza e per le quali la diplomazia e l’empatia potrebbero essere controproducenti. Nei vari “contenitori di notizie” del mondo della comunicazione commerciale, siano essi magazine, social, radio, tv … non è affatto raro incrociare commenti celebrativi di questo o quel creativo, questa o quella marca, questo o quello spot o campagna. Quando non si tratta di sdolcinate autocelebrazioni, sono spesso dichiarazioni di “addetti ai lavori” chiamati, per mestiere o per amicizia, a commentare le scelte e le soluzioni elaborate dalle agenzie o da creativi freelance per i loro sudati clienti. Tutto nella norma se si trattasse di onesta cronaca e non fosse invece francamente insopportabile per le improbabili motivazioni con cui sistematicamente vengono descritte e infarcite le imprese convenzionalmente definite “creative”. Approcci che azzardano quasi uno stile lirico, ispirato o motivato dalla trasfigurazione mitica ed “esemplare” di persone idealizzate dagli “addetti ai lavori” o di momenti ritenuti irripetibili o addirittura sentiti come vicende “spirituali” soggettive e autonome rispetto al contesto in cui si sono svolte. Enfatizzazioni di accadimenti che, a leggerne la descrizione (autoprodotta), ti aspetti siano davvero memorabili e straordinari. Poi li “guardi”, li leggi o li ascolti e, se sei onesto e non sei imbevuto di teorie idealizzate e se non hai conflitti di interesse, non puoi che constatare essere solo e sempre esercizi non creativi, bensì “ricreativi”: giri in giostra pagati dalle aziende che sperano di aver acceso, con un nutrito budget, un cero a qualche Santo affinché gli conceda la grazia di fargli crescere i fatturati. A leggere con costanza tali contenuti (che si ripetono quasi come delle imbarazzanti fotocopie) si nota quindi un generale approccio, tendente al poetico/religioso, di strategie che sono solo indiscutibilmente commerciali, ma si auto-spacciano per altro tendente all’onirico. Un comportamento ormai talmente rituale e ripetitivo che rischia davvero di convincere masse di persone incaute, ingenue, disarmate o fedelmente cieche … che un prodotto possa essere dotato di valori e personalità che su un prodotto non possono che essere solo artificialmente incollati. Artificiali e quindi “finti” o perlomeno improbabili. Ci troviamo allora non solo davanti ad esercizi artificiosi, messi in atto addirittura da nutriti gruppi di creativi con varie specializzazioni, ma anche ad un sistema di autocertificazione della propria produzione, che le marche assecondano per godere almeno della propria celebrazione con narrative (o storytelling!) che distraggono da concretezze molto meno affascinanti. Si chiama “fuorviare dalla realtà” quello che non stento a definire illusionismo commerciale, cioè di far concentrare su cose mentre ne accadono altre. Il mondo commerciale va letto per quello che è non come una poesia. Se osservando la pubblicità in ogni sua forma credete di leggere (o far leggere) poesie o osservare opere d’arte state ingannando voi stessi e gli altri, forse senza colpa, perché in realtà sono in molti a subire il fascino del vuoto cosmico anche quando autoprodotto. Ma se fai un mestiere carico di responsabilità come quello del “comunicatore” o del “comunicatore del comunicatore” -da cui derivano i comportamenti delle persone e spesso anche le loro consapevolezze- in realtà stai usando mezzi potenti, ingovernabili e molto dipendenti dalla natura di chi li nutre. E questo dovrebbe suggerirti valutazioni e produzioni meno sognanti. Altrimenti sei “vittima” del mestiere piuttosto che portatore di contenuti. Rispetto a molti “colleghi” ho certo una visione diversa dello stesso mestiere. E quindi il mio apporto crea impatti diversi. Tipico del mestiere dove però conta la scelta di campo. L’etica non è elemento separato da queste considerazioni. “La classica scuola” di comunicazione ha purtroppo prodotto convinzioni e modelli che hanno demolito lo spirito critico individuale, trasformando molte persone da esseri senzienti in esseri consenzienti. Non sto dicendo come la penso, sto dicendo com’è e sono pronto al confronto con quanti fossero capaci di dimostrare il contrario.
Pietro Greppi
ethical advisor e fondatore di Scarp de tenis
Per entrare in contatto con l’autore: info@ad-just.it