PERCHÉ CHIAMARLO DISTANZIAMENTO SOCIALE?
Perché mai anche in una situazione così emotivamente intensa come quella provocata dal virus in corso, si continua a definire distanziamento sociale un semplice e precauzionale distanziamento fisico? Forse perché c’è un’evidente difficoltà, in alcuni componenti della nostra società, nel sopportare l’idea di essere su un unico piano insieme ad altri. Questo sentimento di esclusione emerge anche quando si manifesta la necessità di definire una distanza in un contesto così “nuovo”. Lo si nota anche da altri termini, usati da molti, che evidenziano una malcelata volontà di mantenere comunque certe distanze: va molto il termine “ceto”! Lo senti pronunciare, guardi chi lo pronuncia e non fai fatica a percepire che si tratta solo di un termine alternativo a “classe”, ma più “moderno”. Se basta essere bravi a correre in moto per conquistare una laurea ad honorem in comunicazione … allora si spiega anche perché siamo capaci di negare l’accesso al minimo vitale a chi ci costringe a vedere con la sua sola presenza che la nostra società è divisa e iniqua. E questo ci fa tornare alla questione di “classe” o di “ceto”, parole che stentiamo ad eliminare insieme al pensiero malato che le produce, e cioè il costante desiderio di dividere, separare, allontanare, escludere, mortificare. Sembrano solo parole, ma sono il materiale con cui si costruiscono muri e ostacoli alla crescita di una società che sia civile, inclusiva e capace di crescere in armonia. Un tarlo che devasta l’intelletto, che penetra inevitabilmente anche nelle menti di alcuni di coloro che malauguratamente ci capita di delegare per “progettare il nostro futuro”. Ed è così che nascono ancora mezzi di trasporto suddivisi in classi, chiamate ora con nomi diversi, ma di fatto sempre luoghi in cui sono ben distinti posti riservati solo a chi può pagare cifre maggiori. Non c’è dubbio che concepire idee di separazione svela il retro pensiero omologato degli autori e dei progettisti di queste idee, soprattutto quando necessariamente devono comunicare le loro trovate. La pubblicità, quella irresponsabile, fa poi la sua parte esasperando e imbellettando il concetto di esclusività che di fatto separa. Difficile trovare chi comprenda e sostenga il fatto che “il sociale” non è ciò che abbiamo messo ai margini della società, ma invece tutto l’insieme che ci circonda e di cui facciamo parte. E non c’è da stupirsi se anche chi abita la politica usa la cultura della separazione fra le persone come tasto su cui agire per evocare “la paura”. Pensieri che alla fine generano ovunque anche luoghi fisici dove la separazione si amplifica, come ad esempio nella grande distribuzione attraverso i discount che segnano confini precisi fra chi può e chi non può permettersi alimenti di qualità, o nella scuola dove fra pubblico e privato la qualità della formazione e della refezione dipende ancora una volta dal denaro di cui si dispone, …
Nessuno è uguale a nessun altro, ma il compito di educare al futuro dovrebbe essere quello di saper apprezzare le diversità, valorizzandone l’esistenza, facendosi da ognuna stimolare e dando ad ognuna lo stesso identico spazio, che non è una porzione del tutto, ma è il tutto tutti insieme.
Se proprio vi piace il termine classe, se proprio non potete farne a meno … allora diciamo che siamo tutti nella stessa classe. E se per evitare un contagio è bene usare il termine “distanziamento”, specifichiamo che si tratta di distanziamento fisico, che quello sociale dovremmo imparare ad eliminarlo.
Pietro Greppi
ethical advisor e fondatore di Scarp de tenis
Per entrare in contatto con l’autore: info@ad-just.it