CREATIVI? È ARRIVATO UN CLIENTE IMPEGNATIVO

Se il mondo della pubblicità fino a ieri poteva lamentare, a ragione, la carenza di committenti che lo mettesse a gara su temi rilevanti e più dignitosi di detersivi, auto e merendine, su questioni più serie e utili -anche se difficili da affrontare- aldilà dell’oggettiva banalità di prodotti che, se hanno un senso e un’utilità vera, dovrebbero allora “vendersi da soli” … se il comparto della creatività nel suo complesso stava cercando l’occasione di dimostrare la propria capacità di riflessione, di giudizio, di “lettura del presente” e di reazione e, in altre parole, la sua narrata utilità sociale in senso ampio, su cui spremere meningi, proporre stimoli e soluzioni alle aziende e al pubblico, avendo l’opportunità di risultare rilevante a livello globale … ebbene quell’opportunità è arrivata. E il committente è uno di quelli impegnativi, che ti mette a gara senza il solito brief, ti coinvolge “in corsa” con semplici, ma efficaci, segnali. Uno che se non fai la cosa giusta ti elimina senza tanti complimenti. È un virus: tanto piccolo quanto efficace nei suoi intenti, che manifesta la sua presenza con risultati che ottiene da solo e con poco, ma che tuttavia ti lascia un’opportunità chiamando in gara tutti, mettendo sul piatto un premio particolare che può essere conquistato solo eliminando lo stesso committente: un premio che si chiama sopravvivenza del sistema e soprattutto delle persone che lo popolano. Perché questo committente, che per percepirlo abbiamo dovuto battezzarlo, mira alle persone, mica ai prodotti. Come a indicarci quale sia l’anello debole delle cosiddette potenze economiche e di coloro che ritengono di poterle governare facendo finta che siano i numeri le cose più importanti. È arrivato lui, il virus, e come fosse un consulente esterno, ci sta facendo capire che l’anello debole siamo noi persone. Serviva ricordarcelo e lo ha fatto. E provocatoriamente ci fa contemporaneamente da consulente, da committente e da “supremo competitor” che si nutre della nostra superba superficialità e arroganza, obbligandoci a occuparci, appunto, di noi stessi. I prodotti diventano di colpo marginali seppure ancora desiderati, perché rarefatti rispetto a poche settimane fa, e quindi ancora oggetti di un desiderio residuo. Ed è qui che vi voglio. È qui che serve una reazione e un cambio di paradigma. Perché in questo momento si avverte più apprensione per il consumo rallentato che per la salute delle persone. Ed è già successo altre volte, anche se in ambiti meno estesi e per questioni più facili da “toccare” come nel caso dell’Illva di Taranto. Le crisi economiche sembrano sconvolgerci e valere più della nostra vita. Il sistema che abbiamo costruito, complice la pubblicità che si pone al servizio di chiunque sia disposto a pagarla indipendentemente dall’utilità o dal senso di ciò che le viene assegnato di “promuovere”, ha pian piano addestrato le menti a credere che consumare sia più importante della salute. Al punto che si producono sì farmaci di cui si comunica l’esistenza, ma per problemi di salute provocati dallo stile di vita che facciamo e da ciò che scegliamo per nutrirci. Prova ne è che milioni di persone scelgono di risiedere e lavorare in zone avvelenate pur di “poter vivere nonostante il rischio di morire”. E la sanità è diventata praticamente un servizio di riparazione dei danni provocati dal sistema di produzione e consumo. Un controsenso difficile da accettare. Ora che la paura è amplificata dalla dimensione praticamente invisibile di un virus che ci costringe ad una pausa, è proprio questo il momento per cogliere l’occasione di riflettere sul valore e il senso di consuetudini, comportamenti, servizi, modelli produttivi e addirittura di prodotti che potremmo scoprire di poter fare meglio, diversamente o di non fare più. Potremmo finalmente scoprire che la nostra abitudine a correre in avanti a testa bassa ha lasciato indietro molte persone e molti valori che questa fermata imprevista ci può consentire di recuperare. Cari creativi e care aziende, vogliamo allora provare a pensarci seriamente o davvero crediamo di poter tornare a correre a testa bassa così tanto per dire “andiamo avanti”?

Pietro Greppi

ethical advisor e fondatore di Scarp de tenis

Per entrare in contatto con l’autore: info@ad-just.it

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