VITE DA PHOTOSHOP
Migliore istruzione? Migliore alimentazione? Migliore consapevolezza? Migliore convivenza civile? Migliore salute? Migliore organizzazione sociale? Migliore gestione e distribuzione delle risorse? Migliori relazioni? Persone migliori? Città migliori? … Mi limito a osservare che rendere migliore qualcosa o contribuire a rendere migliori noi stessi o qualcuno dovrebbe essere una filosofia condivisa e universale, da mettere in pratica sfruttando e tramandando le nostre facoltà intellettive di generazione in generazione.
Ma, con buona evidenza, l’interpretazione di questa opportunità dipende dalle epoche, da come si evolve la nostra intelligenza … e chissà da cos’altro!
Quello di oggi appare un periodo storico dove le consapevolezze sono confuse. Un periodo in cui ampie fasce di individui interpretano le opportunità di miglioramento in modi superficiali, confusi, azzardati, addirittura pericolosi per sé e per gli altri.
La traduzione in fatti di “rendere migliore” sembra infatti fortemente influenzata dall’ “esistenza del mondo virtuale” (che è quasi un ossimoro) e dalla sua influenza sulle menti di coloro che provano soddisfazione e appagamento nel costruire, frequentare o osservare mondi e persone che esistono solo nei contenitori virtuali, ormai onnipresenti e, nonostante l’alta definizione, obnubilanti.
Ogni esercizio di apparenza è reso possibile dalle operazioni che la virtualità consente. Pare che sfugga però, ai più, che il virtuale non è il reale. Un’ovvietà che pare non essere percepita come tale. Sembra di assistere al passaggio artificiale di una moderna scelta fra “avere o essere”: con buona pace di ogni filosofo, oggi si tende a “godere di avere un mondo virtuale dove virtuale è anche il proprio essere”. Originale, diverso, vero, falso, naturale o artificiale … la nostra società, pian piano, pare essersi adeguata al “modello photoshop” (e simili), che consente di correggere e alterare ogni immagine. Come ulteriore sviluppo, il correttore ha accelerato l’idea che ogni modifica sia trasportabile nel reale, impadronendosi anche delle persone e inducendole a ritocchi reali a tutto “spiano” sul loro corpo.
I modelli costruiti anche solo con intenti pubblicitari, proposti quindi virtualmente, attecchiscono inesorabilmente sulle menti e poi nelle vite e poi nei corpi di persone che smettono di essere presenti a sé stesse diventando surreali. L’idea stessa di modificare la realtà, alterandola, è diventato il segno dei nostri tempi ed è un sottile e pericoloso vulnus che intacca la capacità delle persone (quelle più permeabili e meno solide) di accettare le proprie originalità e quelle degli altri –siano fisiche o di relazione- con naturalezza, dimenticando l’esistenza della diversità.
La questione preoccupante non riguarda la liceità della creazione di immagini “belle” o abbellite secondo propri o comuni criteri, ma l’abitudine a correggere le imperfezioni che imperfezioni non sono. Una pratica questa che, uscita dal virtuale ed entrata nel reale, produce uno sconvolgimento dell’essere e consente la proposizione di mondi inesistenti, anche al di fuori dei contesti propriamente dedicati allo spettacolo e all’arte. Un conto è togliere un alone prodotto su una foto da un obiettivo sporco. Un altro è trasformare una persona o una cosa reale in un’altra che non esiste … che è accettabile se riguarda un esercizio artistico, ma diventa insopportabile e per certi versi offensivo e pericoloso quando l’esercizio è orientato a far percepire un prodotto migliore di quello che è in realtà … che è tipico, quasi fisiologico, del settore della comunicazione commerciale. Prova di questo malessere del settore della pubblicità è l’idea diffusa, e spesso ripetuta, che essa (intesa come comparto) sente il dovere di far apparire ogni prodotto come capace di “sedurre”. Una convinzione che è diventata un chiodo fisso e un mantra soprattutto di coloro che devono difendere l’acquisizione di budget da aziende i cui dirigenti sono affascinati da questa idea che il loro prodotto possa sedurre … Persone che ad un certo punto pretendono addirittura questo effetto. Si tratta di una malattia autoimmune del comparto. Mai che passi l’idea che la semplicità sia un obiettivo più facile, meno costoso, più condiviso e più etico.
Pietro Greppi
Ethical advisor e fondatore di Scarp de’ tenis
Per entrare in contatto con l’autore: info@ad-just.it