CHE COSA SAPPIAMO?
David Ogilvy aveva dato un indirizzo che ci siamo persi.
Quanto sa davvero un pubblicitario del prodotto di cui costruisce la comunicazione? Che responsabilità assume il suo ruolo in merito alla diffusione di prodotti, abitudini e stili alimentari e di comportamento indotte dall’efficacia di una campagna? Che tipo di consapevolezza e responsabilità sentono i responsabili di agenzia e i loro collaboratori sulla soddisfazione delle aspettative del consumatore, dichiarate in una campagna?
Perché farsi queste domande? Perché i comunicatori sono di fatto responsabili quanto il cliente di quello che accade in seguito alla diffusione di una campagna da loro pensata. Lo confermano le “lodi” che ricevono le campagne pubblicitarie, portatrici dei risultati desiderati alle aziende clienti. Ma lo confermano anche le conseguenze collaterali e le penalità inflitte a campagne giudicate non consone ai criteri di base dell’autodisciplina del settore. Semplice.
Si premiano la creatività e le vendite che questa provoca. Ma non si considerano mai altri effetti che restano in carico solo all’azienda cliente, nonostante la scelta di cosa e come dirlo derivi da un accordo fra due parti. Ed è prevalentemente a causa di questo, con ogni evidenza, che la categoria agisce senza sentirsi mai pienamente responsabile degli effetti collaterali di una campagna. Gioendo delle lodi, ma senza mai cercare di assumersi altre responsabilità. E anche qui entra in gioco l’etica.
Provo ad assecondare il lamento dei colleghi che, da me provocati sulle questioni etiche che latitano e stentano ad assumere diritto di cittadinanza nel settore pubblicitario, mi dichiarano candidamente di non poter far nulla per convincere le aziende clienti a lasciarsi guidare su percorsi di etica e quindi, in sostanza, di rispetto del cliente finale. Provo a credere che sia difficile. E provando a crederci posso arrivare a comprendere da dove arriva l’imperante ed evidente spregio per il buon senso che sempre più velocemente prende piede.
E’ come dire che chi fa il pubblicitario si occupa quindi “solo” di creatività per costruire la scena, pensare al copione, trovare gli attori,… ma lo fa fidandosi di quello che afferma il cliente senza obiettare. Si fida e fa solo “il creativo”. E su queste basi si costruisce così una campagna.
Ma che ne sa davvero l’agenzia di quel prodotto che non sia scritto o detto durante i brief dal cliente? Che ne sa se le qualità e le promesse dichiarate con enfasi nella campagna corrispondono al reale?
Dove sono finiti i comunicatori ispirati da Ogilvy che, per chi non ricorda, aveva creato la sana abitudine, comunicata e in qualche modo imposta ai clienti, di accettare incarichi a patto di poter provare e far provare e analizzare personalmente ai suoi collaboratori ogni prodotto di cui si sarebbero dovuti occupare? È rimasta traccia di questo modello professionale? Non credo. Non ne vedo neppure l’ombra. I tempi sono cambiati mi si dirà. Certo. Senza dubbio. Ma in peggio. Sembra che tutto si limiti alla creatività e all’uso dei sistemi tecnologici più moderni. Senza che si manifesti un qualche impegno a costruire contenuti di sostanza. Non è una critica, ma un allarme di dolore professionale. E dove voglio arrivare lo dico subito.
Propongo al comparto di costruire le basi per accordarci tutti sulla costruzione di un manifesto comune per riprendere spunto dal “metodo Ogilvy”, migliorarlo e impegnarci a costruire una nuova generazione, più autorevole e credibile, di comunicatori preparati e consapevoli, i quali, “per legge” (o autoregolamentazione del settore), siano e si sentano obbligati a condividere la responsabilità di quanto promesso e dichiarato in una campagna? Incluso il fatto che ci venga concesso a priori di analizzare il prodotto che dovremo comunicare, per darci modo di “dire” cose in modo responsabile e consapevole. Con tutto quello che ne consegue.
Pietro Greppi
ethical advisor
fondatore di Scarp de tenis
fondatore del Laboratorio per la realizzazione del Linguaggio universale dei segni – non verbale
Per entrare in contatto con l’autore: info@ad-just.it