Fiori di plastica
Cercare di spiegare quanto sia utile l’etica in comunicazione per costruire percorsi di crescita diffusa e contagiosa, richiede un buon carattere e una certa costanza per non farsi prendere dallo sconforto.
Ma quando un tema è utile e necessario (e urgente direi) ne vale la pena.
Sensibilizzare il comparto su questo tema rischia infatti di passare come un “rifiuto della pubblicità”, quando invece si tratta di una semplice critica costruttiva e un fermo invito a lavorare per salvaguardare la reputazione dell’intero settore e di conseguenza anche quello delle aziende committenti che, per inciso, sono quelle che pagano e che dovrebbero quindi pretenderlo.
Se la pubblicità ha senso di esistere è perché funziona. Nel bene e nel male. La questione da discutere è che funziona solo (e non sempre bene) in relazione agli obiettivi commerciali delle aziende. Non è poco direte, ma non viene per nulla considerato che, anche se non è un servizio “pubblico”, potrebbe diventarlo. Non ci sarebbe niente di male, non credete? Anzi. Intendo dire che un rapporto etico con gli strumenti e i contenuti della comunicazione può consentire di realizzare progetti di utilità pubblica e campagne che, a differenza di quanto avviene nella norma, non necessitano ripensamenti e costanti rifacimenti alla ricerca del risultato. Ne beneficerebbe l’azienda che sarebbe identificata come portatrice di cultura costruttiva oltre che di prodotti. E ne beneficerebbe il pubblico che riceverebbe stimoli e informazioni degne di questo nome. Per usare una metafora piuttosto chiara, che ho portato anche al tavolo UNICOM della responsabilità sociale d’impresa di qualche giorno fa, dovremmo essere capaci di vedere che da tempo il mondo della comunicazione commerciale è come se piantasse in continuazione fiori di plastica. Ovviamente le eccezioni ci sono sempre, ma sempre troppo rare.
La differenza fra comunicare e progettare in modo responsabile ed etico e il non farlo, possiamo paragonarla alla differenza che passa fra il piantare un fiore vero e uno di plastica. La comunicazione commerciale di oggi produce prati di fiori di plastica, bellissimi ma finti, senza profumo e destinati alla discarica in breve tempo, senza alcuna possibilità di crescere o di stimolare la crescita di null’altro. Anzi, e qui la metafora regge ancora, risultano anche difficili da smaltire. Qualcosa di vero che continua a crescere e a mutare è invece diverso, e non dovrebbe servire spiegarlo, da una cosa finta dotata di una personalità solo artificiale. I contenuti che lasciano un segno artificiale hanno matematicamente vita corta e devono quindi essere sostituiti da nuovi segni che impegnano intelligenze che potrebbero dedicarsi a esercizi più dignitosi, tutto in una spirale che produce sprechi. Per quale motivo usare così male le risorse economiche dei clienti e quelle intellettive delle agenzie se è invece possibile impiegarle per realizzare giardini fioriti in costante evoluzione e di pubblica utilità? Il tema si fa ancora più serio perché molta dell’energia sedicente creativa si concentra spesso nella cattura disonesta dell’attenzione dei nostri bambini
o del bambino che è in noi. È una cultura bassa e irresponsabile, perché la pubblicità, con l’invasività e la ripetitività che la caratterizzano è suo malgrado diventata, soprattutto per i nostri bambini, un “ente formatore” capace di lasciare un segno molto più efficace e più “convincente” di quanto siano in grado di farlo la scuola, la famiglia, le amicizie, lo sport
E accade così che, in un mondo che gli trasmette segnali contrastanti, i nostri bimbi crescono vedendo più fiori di plastica che fiori veri e la pubblicità che a loro si rivolge semplicemente li inganna, disorientando la buona fede e i sentimenti di chi si sta formando un’idea di società. Che adulti saranno? I comunicatori di professione e le aziende che ne usano le qualità ricordino semplicemente che sono stati anche loro bambini.
Pietro Greppi
ethical advisor e fondatore di Scarp de tenis
Per entrare in contatto con l’autore: info@ad-just.it