Cappuccino e brioche
In un bar vicino alla stazione centrale ascolto casualmente una donna sulla trentina che si confida con la cassiera. «Per me, fare colazione al bar tutte le mattine, è diventato un lusso che non so fino a quando potrò continuare a permettermi».
Mi colpisce il termine “lusso” usato dalla signora per qualificare il consumo di prodotti come cappuccino e brioche; anche perché mi sembra improbabile che gli analisti economici, quando annunciano che «in questo periodo di crisi, l’unico mercato che tira è quello dei prodotti di lusso», si riferiscano al mercato dei cappuccini e delle brioche.
Ora, a parte rilevare che “crisi” e “lusso” sono un ossimoro che più di così non si può, vorrei ricordare che il Vocabolario Treccani è perentorio nel definire il lusso come «sfoggio di ricchezza, di sfarzo, di magnificenza; tendenza a spese superflue, incontrollate, per l’acquisto e l’uso di oggetti che, o per la qualità o per l’ornamentazione, non hanno una utilità corrispondente al loro prezzo, e sono volti a soddisfare l’ambizione e la vanità più che un reale bisogno».
Detto questo, e volendo evitare ulteriori equivoci (non solo lessicali, ma di sostanza), non resta che scegliere tra due possibili soluzioni. Uno: chiedere ai signori della Treccani di rivedere la definizione del termine “lusso” perché, detto tra parentesi, quella presente nel loro vocabolario profuma un po’ troppo di moralismo dantesco.
E, due: suggerire ai gazzettieri di Piazza Affari di essere più accorti nell’uso delle parole quando decidono di comunicare erga omnes i risultati delle analisi micro e macro economiche.
È infatti del tutto evidente che usando la locuzione “prodotti di lusso” essi esprimono un concetto relativo, cioè non idoneo a distinguere i prodotti il cui prezzo elevato dipende esclusivamente da fattori sovrastrutturali come l’essere alla moda, essere griffato con un nome famoso del jet set e via pataccando, da altri prodotti della stessa fascia di prezzo ai quali però è doveroso riconoscere innegabili plus quali l’originalità e l’impegno della ricerca, il valore dei loro componenti e la superiore abilità e cura della manifattura.
Converrete con me che esiste una bella differenza tra un paio di scarpe griffate col nome dello stilista più famoso che vi viene in mente, ma fatte chi sa dove – con chi sa cosa – da chi sa chi, da un altro paio di scarpe realizzate interamente a mano in un ultracentenario calzaturificio artigianale del varesotto con cuoio, pellami e accessori di prima scelta.
Differenza che conoscono bene tutti coloro (sparsi nel mondo, Cina compresa) i quali, essendo in grado di distinguere il caffé dalla ciofèca, quando si tratta di scegliere tra prodotti “luxury shame” e prodotti di “alta gamma”, non hanno dubbi e decidono per i secondi.
Invitiamo quindi i giornalisti che scrivono di economia e di consumi a non buttarla troppo sul facile. Fare informazione utilizzando generici “modi di dire” non aiuta le imprese italiane a mantenere un ruolo da protagonisti e ad imporsi nel mondo con la qualità dei loro prodotti.
Sappiamo tutti che oggi l’obbiettivo più importante per l’Italia è quello di far sì che alla crescita dell’esportazione corrisponda una crescita dei consumi interni. Per uscire dalla crisi e per consentire alla signora, casualmente incontrata al bar, di poter continuare a permettersi il lusso di fare ogni mattina la sua buona colazione con cappuccino e brioche. D’alta gamma, naturalmente.
Bruno Zerbini
bruno@brunozerbini.com
Fondatore della Bruno Zerbini & Partners, è stato international creative director presso Pubbliregia, house agency di Ferrero, e vice presidente Unicom.